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Le categorie di imprenditore


  1. IMPRENDITORE AGRICOLO E IMPRENDITORE COMMERCIALE
Il testo originario dell’art. 2035 c.c. stabiliva che: "E' imprenditore agricolo chi esercita un'attività diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse. Si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura." Quindi vi erano attività agricole essenziali ed attività agricole per connessione.
Ma la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l’allevamento del bestiame hanno subito una profonda evoluzione dal 1942. Il progresso tecnologico ha fatto avanzare l’agricoltura industrializzata e ha consentito di ottenere prodotti merceologicamente agricoli con metodi che prescindono dallo sfruttamento della terra e dei suoi prodotti. Oggi anche l’attività agricola può dar luogo ad ingenti investimenti di capitale.
Oggi è ritenuta impresa agricola ogni impresa che produce vegetali o animali, ogni forma di produzione basata su un ciclo biologico naturale.
Per l’odierno art. 2035 c.c. “È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.
Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall'allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l'utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell'azienda normalmente impiegate nell'attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.
Quindi:


-          la produzione di specie vegetali ed animali è sempre qualificabile come attività agricola essenziale;
-          nella coltivazione del fondo si fanno rientrare anche le attività di orticoltura, coltivazione in serra, “fuori terra” o in vivai e floricoltura;
-          la silvicoltura è quell’attività caratterizzata dalla cura del bosco per ricavarne i relativi prodotti (no estrazione di legname disgiunta dalla coltivazione del bosco);
-          per allevamento di animali s’intendono anche la zootecnia svolta fuori dal fondo, gli allevamenti in batteria, l’allevamento con alimentazione proveniente da fuori del fondo, l’allevamento di cavalli da corsa o di animali da pelliccia, l’attività cinotecnica (allevamento di cani), l’allevamento di gatti, l’allevamento di animali da cortile, l’acquacoltura (no acquisto di animali all’ingrosso con lo scopo di rivenderli).
Le attività agricole per connessione sono attività oggettivamente commerciali. Per essere considerate attività agricole ci devono essere 2 condizioni:
1)      Il soggetto che esercita una tale attività dev’essere già qualificabile come imprenditore agricolo poiché svolge in forma d’impresa una delle 3 attività agricole tipiche e attività coerente con quella connessa (Si considerano imprenditori agricoli le cooperative di imprenditori agricoli ed i loro consorzi quando utilizzano per lo svolgimento delle attività di cui all'articolo 2135 del codice civile prevalentemente prodotti dei soci, ovvero forniscono prevalentemente ai soci beni e servizi diretti alla cura ed allo sviluppo del ciclo biologico) [connessione soggettiva];
2)      È sufficiente che le attività connesse non prevalgano, per rilievo economico, sull’attività agricola essenziale.
L’imprenditore agricolo è esonerato dalla tenuta delle scritture contabili (art. 2214) e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali (art. 2221) ma è obbligato all’iscrizione nel registro delle imprese (pubblicità notizia e legale).

L’art. 2195 c.c. individua le attività che qualificano l’imprenditore commerciale:
1)      Attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi (industria automobilistica, chimica…);
2)      Attività intermediaria nella circolazione dei beni o servizi (commercio);
3)      Attività di trasporto per terra, acqua o per aria (specificazione della categoria n°1);
4)      Attività bancaria e assicurativa (specificazione delle categorie n°2 ed 1 rispettivamente);
5)      Altre attività ausiliarie delle precedenti (agenzia, mediazione, deposito, commissione, spedizione, pubblicità commerciale, marketing).
Gli elementi che individuano e distinguono l’impresa commerciale sono il carattere industriale dell’attività di produzione di beni o servizi e il carattere intermediario dell’attività di scambio. L’imprenditore commerciale è obbligato all’iscrizione nel registro delle imprese (pubblicità legale), alla tenuta delle scritture contabili e all’assoggettamento alle procedure concorsuali.

La categoria degli imprenditori civili, sottoposti solo alla disciplina generale dell’imprenditore, non è espressamente prevista dal legislatore. C’è una tesi propensa ad ammettere l’esistenza delle imprese civili ritenendo che il requisito dell’industrialità debba essere inteso come attività che implichi l’impiego di materie prime e la loro trasformazione in nuovi beni ad opera dell’uomo e che possa essere qualificata attività intermediaria nella circolazione solo quella nella quale ricorre sia l’acquisto sia la vendita di beni. Sarebbero quindi imprese civili quelle che producono beni senza trasformare materie prime e quelle che producono servizi senza trasformare materie prime tranne quelle individuate dai comma 3, 4 e 5 dell’art. 2195 c.c. Ma c’è anche una tesi contraria ad ammettere l’esistenza delle imprese civili che è quella prevalente e ritiene che attività industriale significhi attività non agricola ed il concetto di intermediazione debba essere inteso come equivalente di scambio. Quindi l’imprenditore commerciale è ogni imprenditore non agricolo.

  1. PICCOLO IMPRENDITORE. IMPRESA FAMILIARE
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore, è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dalla tenuta delle scritture contabili e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali mentre è obbligato all’iscrizione nel registro delle imprese (pubblicità notizia). Nella legislazione speciale questa figura è oggetto di una ricca ed articolata disciplina che ne favorisce l’esistenza e lo sviluppo. Ci sono 2 diverse definizioni del piccolo imprenditore nel codice civile e in quello fallimentare:
  • L’art. 2083 c.c. dive che: “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.” Il carattere distintivo di tutti i piccoli imprenditori è la prevalenza del lavoro proprio e familiare. Quindi per aversi la piccola impresa è necessario che l’imprenditore presti il proprio lavoro nell’impresa e che il suo lavoro e quello degli eventuali familiari che collaborano nell’impresa prevalgono sia rispetto al lavoro altrui sia rispetto al capitale investito nell’impresa.
  • L’art. 1, comma 2°, legge fall. stabilisce: “Sono considerati piccoli imprenditori, gli imprenditori esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore al minimo imponibile. Quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a lire novecentomila. In nessun caso sono considerati piccoli imprenditori le società commerciali.” Di questo art. ora sopravvive solo quest’ultima affermazione perché l’imposta di ricchezza mobile è stata soppressa nel 1974, sostituita dall’IRPEF, mentre il criterio del capitale investito non superiore a lire 900.000 è stato dichiarato incostituzionale nel 1989.
Alla luce di tutto ciò è piccolo imprenditore il titolare di un’impresa in cui prevale il lavoro familiare ed in nessun caso lo è la società commerciale.

La L 860/1956 diceva che: “È artigiana, a tutti gli effetti di legge, l'impresa che risponde ai seguenti requisiti fondamentali: a) che abbia per scopo la produzione di beni o la prestazione di servizi, di natura artistica od usuale; b) che sia organizzata ed operi con il lavoro professionale, anche manuale, del suo titolare e, eventualmente, con quello dei suoi familiari; c) che il titolare abbia la piena responsabilità dell'azienda e assuma tutti gli oneri e i rischi inerenti alla sua direzione ed alla sua gestione. La qualifica artigiana di un'impresa è comprovata dall'iscrizione nell'albo”. Il suo dato caratterizzante era nella natura artistica od usuale dei beni o servizi prodotti e non più nella prevalenza del lavoro familiare nel processo produttivo. Questa qualifica era anche riconosciuta alle imprese costituite in forma di società cooperative o s.n.c. purché la maggioranza dei soci partecipasse personalmente al lavoro e ,nell’impresa, il lavoro avesse funzione preminente sul capitale.
La L 443/1985 ha abrogato quella precedente dando una definizione dell’impresa artigiana basata su:
a)      l’oggetto dell’impresa costituito da qualsiasi attività di produzione dei beni o di prestazione di servizi sia pure con alcune limitazioni ed esclusioni;
b)      il ruolo dell’artigiano nell’impresa che deve svolgere in misura prevalente il suo lavoro nel processo produttivo;
Il numero massimo dei dipendenti è più elevato rispetto al 1956, con la possibilità di raggiungere le dimensioni di una piccola industria di qualità, ed è ribadito che devono essere diretti personalmente dall’artigiano. Egli può essere titolare di una sola impresa artigiana.
Società cooperative e s.n.c., dapprima, poi anche s.r.l. unipersonali, s.a.s. e, più di recente, anche s.r.l. pluripersonali possono essere imprese artigiani a condizione che la maggioranza dei soci, ovvero uno nel caso di due soci, svolga in prevalenza lavoro personale, anche manuale, nel processo produttivo e che nell'impresa il lavoro abbia funzione preminente sul capitale.
È scomparso ogni riferimento alla natura artistica o usuale, quindi si qualificano artigiane anche imprese di costruzioni edili. Non è consentito desumere da nessuna norma che debba ricorrere anche la prevalenza del lavoro proprio e dei componenti della famiglia sul lavoro altrui e sul capitale investito.
Ma se non è rispettato il criterio della prevalenza dell’art. 2083 c.c., l’artigiano non è sottratto allo statuto dell’imprenditore commerciale, sarà artigiano ai fini delle provvidenze regionali ma non ai fini civilistici e potrà fallire. Anche la società artigiana in caso di dissesto fallirà e non godrà più dell’esonero.
Le imprese artigiane non possono essere qualificate come imprese civili per la presenza del requisito dell’industrialità.

 

È impresa familiare l’impresa nella quale collaborano il coniuge, i parenti entro il 3° grado (nipoti) e gli affini entro il 2° grado (cognati), disciplinata dall’art. 230-bis c.c.:

“Salvo che sia configurabile un diverso rapporto il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi.

Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell'uomo.

Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.

Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell'azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.

In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sulla azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell'art. 732.

Le comunioni tacite familiari nell'esercizio dell'agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme.”

Con questo art. il legislatore predispone una tutela minima ed inderogabile del lavoro familiare nell’impresa, qualora non ci sia un diverso rapporto giuridico tutelato dalla legge, riconoscendo ai membri che lavorino in modo continuato nella famiglia o nell’impresa determinati diritti patrimoniali ed amministrativi. I primi sono:
1)      Diritto al mantenimento;
2)      Diritto di partecipazione agli utili in proporzione alla quantità e alla qualità di lavoro prestato;
3)      Diritto sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell’azienda in proporzione alla quantità e alla qualità di lavoro prestato;
4)      Diritto di prelazione sull’azienda in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda (secondo l’art. 732 c.c.).
Sono previsti:
-          l’adozione a maggioranza, dove ciascun familiare ha diritto ad un voto, di alcune decisioni in merito alla gestione straordinaria e di altre decisioni di particolare rilievo senza la presenza dell’imprenditore in quanto destinatario di queste;
-          il trasferimento del diritto di partecipazione esclusivamente a favore di altri membri della famiglia nucleare e con il consenso unanime degli altri partecipanti;
-          il diritto alla liquidazione in caso di cessazione della prestazione di lavoro e in caso di alienazione dell’azienda.
Gli atti di gestione ordinaria sono di competenza esclusiva dell’imprenditore. Egli agisce nei confronti di terzi in proprio e non come rappresentante dell’impresa familiare, quindi solo a lui saranno imputabili gli effetti degli atti che pone in essere. Se l’impresa è commerciale solo l’imprenditore sarà esposto al fallimento in caso di dissesto.

  1. IMPRESA COLLETTIVA. IMPRESA PUBBLICA
Le società sono le forme associative tipiche previste dal nostro ordinamento. La società semplice è la forma utilizzabile solo per l’esercizio di attività non commerciali. La società commerciale è quella che può svolgere attività agricola (società di tipo commerciale con oggetto agricolo) o attività commerciale (società di tipo commerciale con oggetto commerciale). Parte della disciplina propria dell’imprenditore commerciale si applica alle società commerciali qualunque sia l’attività svolta. Le società non sono mai piccoli imprenditori. Nelle s.n.c. e s.a.s. parte della disciplina dell’imprenditore si applica solo o anche nei confronti dei soci a responsabilità illimitata.

Lo Stato e gli altri enti pubblici possono svolgere attività d’impresa in 3 modi:
a)      possono svolgere direttamente attività d’impresa avvalendosi di proprie strutture organizzative dotate di un’autonomia decisionale e contabile (imprese-organo);
b)      possono dar vita ad enti di diritto pubblico il cui compito istituzionale esclusivo o principale sia l’esercizio di attività d’impresa (enti pubblici economici) [dall’inizio degli anni ’90 sono stati privatizzati prima formalmente e poi sostanzialmente]. Essi sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore con l’esonero dal fallimento e dalle procedure concorsuali minori sostituiti da altre procedure;
c)      possono svolgere attività d’impresa servendosi di strutture di diritto privato (società a partecipazione pubblica).
Per le prime 2 tipologie le regole peculiari sono dettate dagli art. 2093, 2201 e 2221 c.c. L’art. 2093 dice che “le disposizioni” del libro V “si applicano agli enti pubblici inquadrati nelle associazioni professionali. Agli enti pubblici non inquadrati si applicano le disposizioni di questo libro, limitatamente alle imprese da essi esercitate. Sono salve le diverse disposizioni della legge.” L’art 2201 dice che “Gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un'attività commerciale sono soggetti all'obbligo dell'iscrizione nel registro delle imprese.” Quindi gli enti titolari d’imprese-organo sono implicitamente esonerati dall’iscrizione nel registro delle imprese e dall’assoggettamento alle procedure concorsuali per l’art. 2221 (“Gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti, in caso d'insolvenza, alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali.”). Solo gli enti pubblici che svolgono attività commerciale accessoria sono sottoposti allo statuto generale dell’imprenditore e a tutte le restanti norme previste per l’imprenditore commerciale.

Le associazioni, le fondazioni e tutti gli enti privati con fini ideali o altruistici possono svolgere attività commerciale qualificabile come attività d’impresa se fatta con metodo economico e professionalità. Questa può essere anche l’oggetto esclusivo o principale dell’ente. Più frequentemente costituisce un’attività accessoria. Non ci sono norme specifiche per questi enti. Essi possono essere imprenditori a pieni effetti con l’esposizione al fallimento. Il fallimento di un’associazione non riconosciuta non comporta però il fallimento degli associati illimitatamente responsabili.

1 commento:

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